Il problema della Causazione
mentale
Una spiegazione completa dei comportamenti non dovrebbe limitarsi a dar conto dei processi mentali che precedono le azioni e che dispongono certi individui a metterle in pratica; una spiegazione completa non dovrebbe occuparsi soltanto del piano mentale (ovvero, per così dire, dei comportamenti “in potenza”).
Una spiegazione completa dovrebbe occuparsi anche di quel passaggio critico e del tutto particolare, nel corso del quale i processi mentali si trasformano in comportamenti effettivi, azioni, cambiamenti di stato; la spiegazione dovrebbe investire anche il piano fisico del comportamento (il piano dei comportamenti “in atto”).
È proprio in relazione a questo passaggio cruciale (dal piano delle mere intenzioni a quello delle azioni) che emerge il cosiddetto problema della “causazione” mentale: come facciano stati e processi mentali a determinare (causare) stati e processi di tipo fisico.
Per il “fisicalista”, la soluzione di un problema del genere potrebbe sembrare a portata di mano.
Se infatti (come il “fisicalismo” sostiene) le intenzioni non fossero altro che il corrispettivo (il risultato) di stati (o processi) meramente fisici, allora il passaggio dal piano “mentale” (il piano delle intenzioni) a quello fisico (il piano delle azioni) consisterebbe in definitiva in una trasformazione che si svolge interamente sul piano fisico: si tratterebbe soltanto del passaggio da certi stati o processi fisici iniziali (corrispondenti a certe intenzioni) a certi altri stati o processi fisici finali (le azioni).
Tutte le spiegazioni dei comportamenti rientrerebbero nell’ambito delle spiegazioni adottate per dar conto degli ordinari processi naturali; il problema della “causazione mentale” si ridurrebbe al tradizionale problema della causalità naturale (e cioè: cosa intendiamo dire esattamente, quando affermiamo che un certo evento fisico è “causa” di un altro?).
È questo un problema niente affatto banale, se dobbiamo dar peso alla sterminata letteratura filosofica che si è occupata dell’argomento, a partire da Hume; ma, almeno, non si tratta di un problema ulteriore e specifico – come quello della causazione mentale – che richieda soluzioni sui generis, esponendo anche al rischio di pseudo-soluzioni (come era, a tutti gli effetti, quella avanzata da Cartesio, consistente nell’individuare una sede specifica per il passaggio dal piano mentale a quello fisico – la ghiandola pineale – senza spiegare in cosa consistesse esattamente tale “passaggio”).
Tuttavia, nel quadro di una soluzione rigorosamente “fisicalista” tutti i termini propri della psicologia dovrebbero essere preventivamente “ridotti” a termini delle scienze naturali (e, in ultima analisi, a termini fisici). Ma questa “riduzione” (ammesso che sia possibile):
- svuoterebbe di valore scientifico le usuali spiegazioni psicologiche (riducendole a spiegazioni grossolane, prive di rigore, superficiali);
- renderebbe alquanto indecifrabile il significato delle spiegazioni fornite. Per esempio, per spiegare il fatto che X non mangia Y, invece di far riferimento alle convinzioni religiose di X una spiegazione formulata nello stile “fisicalista” farebbe appello probabilmente a certe connessioni sinaptiche rilevate nel cervello di X, insieme a certe proprietà biofisiche dell’alimento Y; ma alla fine, per comprendere il significato d’una spiegazione del genere, bisognerebbe in qualche modo ritornare al fatto che quelle connessioni sinaptiche danno luogo a quelle convinzioni religiose e al fatto che quelle proprietà biofisiche sono tipiche di quell’alimento; dunque, se per comprendere una spiegazione fisicalista occorre tornare al livello delle spiegazioni ordinarie, sembrerebbe del tutto ovvio concludere che le spiegazioni fisicaliste sono ridondanti, pletoriche (proprio in ordine alle finalità esplicative, per le quali esse sono invocate).
D’altra parte, un “mentalista” che volesse insistere sul carattere pletorico (e non pertinente) delle spiegazioni espresse nel linguaggio delle scienze naturali (il linguaggio della fisica, della chimica, della biologia, della neurofisiologia), si troverebbe di fronte al problema caratteristico di ogni dualismo: o si conviene che la spiegazione possa riguardare soltanto i processi puramente mentali (inferenziali) che precedono il comportamento (senza investire il passaggio effettivo all’azione), oppure occorre postulare che certe proprietà degli stati mentali diano luogo a (causino) certe proprietà fisiche, determinandone le caratteristiche. Allora, chi voglia formulare spiegazioni “mentalistiche” dei comportamenti dovrebbe preventivamente chiarire:
- se sia pertinente utilizzare il concetto di “causa” (che è tipico dei processi fisici), quando si voglia dar conto di processi puramente mentali (per esempio: è corretto dire che un certo desiderio e una certa credenza hanno causato un certo proponimento? O non è più corretto limitarsi a dire che quegli atteggiamenti intenzionali sono i presupposti logici di quel proponimento?);
- se sia corretto utilizzare il concetto di “causa” (e in che senso ciò sia possibile), quando si voglia dar conto del passaggio dal piano delle intenzioni al piano delle azioni effettive (per esempio: è corretto dire che un certo atteggiamento proposizionale – un desiderio, una credenza o un timore – ha causato un certo movimento corporeo? E in quale accezione viene utilizzato, in questo genere di spiegazioni, il concetto di “causa”?).
Per far luce sul punto, conviene analizzare come venga utilizzato (nell’ambito delle scienze naturali) il concetto di “causa” e quali problemi il filosofo della scienza si trovi immediatamente di fronte, quando prova a distinguere tra una catena “causale” di eventi (per esempio: la caduta in terra di un bicchiere ed il fatto che il bicchiere vada in frantumi) e una mera “co-occorrenza” tra eventi (per esempio: il fatto che la scorsa settimana mi sia toccata in sorte la pioggia, ogni volta che ho scelto di venire all’Università in motorino). Sul punto, si rinvia al contenuto dei capitoli 2.3 e 2.10, nel libro Materializzazioni dell’anima.
Per altri
versi, conviene discutere preventivamente se – nell’ambito delle teorie della
mente – non sia più opportuno riferirsi al concetto di
“ragione motivante”, piuttosto che a quello di “causa”. Sul punto, si vedano i
capitoli 2.1, 2.2, 2.4, 2.5 e 2.6 del libro Materializzazioni dell’anima.